Madri che uccidono
“Per crescere un figlio serve un villaggio”, si dice. Ma questo villaggio, troppo spesso, non c'è.
La solitudine delle madri è un abisso silenzioso, una crepa che si insinua nella vita quotidiana. È in questo vuoto che si muovono le storie di Chiara Petrolini, Alessia Pifferi, Carola Finatti e Susanna Recchia: madri che sono diventate assassine, protagoniste di tragedie che abbiamo osservato con comprensibile orrore e distacco, bollate come mostri. Ma quando definiamo "mostro" una madre che ha ucciso, cosa stiamo davvero facendo, oltre ad erigere un muro tra noi e lei, con il fine di sentirci assolti, collettivamente uniti nell’indignazione forcaiola? La colpa di chi ha ucciso, sia chiaro, è e resta di chi ha ucciso, ed è giusto che i colpevoli paghino per aver spezzato vite innocenti. Ma al netto di questi casi in continuo aumento abbiamo, forse, il dovere-come società-di provare a complessificare e capire cosa c’è all’origine di quello che oggi appare sempre più un fenomeno, più che un isolato bug di sistema.
Dietro ognuno dei casi sopracitati c’è una vita segnata dalla solitudine, dall’assenza di una rete sociale volta a reggere il peso di maternità vissute come esclusioni anziché sostegni. La solitudine di queste madri non è un incidente, non è un’eccezione: è il prodotto di un sistema che celebra la maternità come simbolo di perfezione e sacrificio, ma abbandona le donne nel momento in cui il mito si scontra con la realtà. È un sistema che riproduce disuguaglianze, che non offre servizi adeguati, che condanna la fragilità come fallimento personale anziché riconoscerla come una questione politica.
Le cronache sui figlicidi si soffermano spesso sui dettagli macabri, ma l’impressione è che, quando è una madre ad uccidere, non si interroghino sul contesto. Eppure, basta aprire la finestra sul paese reale, molto spesso emerso dalle piazze o da alcuni post sui social, per scorgere interrogativi interessanti sul tema che sembrano intercettare molti degli snodi teorici: quali erano i segnali che la società ha scelto di ignorare? Dove è finita la disperazione di queste madri, quando non ha trovato ascolto, né risposte? L’indigenza, l’isolamento, la mancanza di accesso a strutture di supporto, l’idea che una madre debba bastare a sé stessa, la violenza ostetrica, che ruolo hanno in queste tragedie?
Che ruolo e responsabilità ha quell’organismo che chiamiamo società e che mira alla conservazione della sua cultura, nei casi di madri che uccidono?
Se ci si sofferma più analiticamente sui connotati di ognuna di queste storie, emerge un fattore drammaticamente ricorrente: non la mostruosità, ma la solitudine.
Alessia Pifferi è stata condannata all'ergastolo per la morte della figlia Diana, di diciotto mesi, lasciata sola in casa per sei giorni, senza cibo e senza conforto, nel luglio del 2022. Di questa vicenda, lo scorso anno, abbiamo letto tanto: dalla prostituzione della madre per fare regali all’uomo che amava, alle condizioni di incuria in cui è stata trovata la figlia. I dettagli macabri, appunto.
Sono stati poco evidenziati fattori al contorno che, invece- da uno sguardo prismatico e più attento- appaiono tutt’altro che marginali, come, ad esempio, il fatto che Alessia Pifferi non fosse consapevole della sua gravidanza fino al momento del parto, avvenuto all'improvviso, tra le pareti di una casa in cui viveva con l'uomo che aveva condiviso con lei quei primi mesi con Diana, ma che poi si era allontanato, lasciando madre e figlia in una solitudine che avrebbe finito per diventare letale. I sanitari che hanno soccorso Alessia dopo il parto improvviso, hanno davvero considerato se fosse pronta a prendersi cura di una bambina apparsa nella sua vita in poche ore?
Se la vicina di casa di Pifferi, che spesso faceva da baby sitter alla piccola Diana per aiutare la madre, aveva colto il disagio di Alessia, è davvero plausibile che la famiglia di lei non avesse mai intuito quanto pericolosa fosse la sua situazione? Inoltre, perché non si è indagato a fondo sulla responsabilità di quell'uomo, la cui influenza su Pifferi appare così evidente?
La piccola Diana è stata uccisa non solo dalla sua solitudine, ma anche da quella che aveva inghiottito sua madre.
Inoltre, se ancora una volta allarghiamo lo sguardo dal personale al sistemico, le madri single oggi in Italia non hanno di certo una vita semplice da gestire, perché direttamente esposte a situazioni di grande vulnerabilità sociale ed economica. Tra i nuclei monoparentali con figli minorenni, una madre sola con almeno un figlio minore è spesso esposta a un rischio di povertà o esclusione sociale, che arriva al 41,3%, rispetto a una media del 27,2% per le famiglie con entrambi i genitori presenti. Inoltre, questi nuclei mostrano spesso una bassa intensità lavorativa, con solo il 63,8% delle madri sole che risultano occupate, (Fonte qui)
E ancora. Chiara Petrolini, 21 anni, indagata per omicidio e occultamento di cadavere di due neonati che avrebbe partorito e nascosto in giardino.
Petrolini ha vissuto due gravidanze impreviste, e si è trovata sola a dover decidere se diventare madre, senza alcun sostegno, con addosso il terrore del giudizio, persino del suo fidanzato. Anche di questo caso abbiamo letto tanto, con la sensazione di non arrivare mai a sbrogliare nemmeno uno dei nodi della matassa che investe tragedie come questa.
Abbiamo letto delle ricerche online di Petrolini su come procurarsi un aborto con i pugni nella pancia, ma non del fatto che nessuno sceglierebbe di interrompere una gravidanza passando per la violenza fisica autoinflitta, se l’alternativa sicura, in questo caso ricorrere ad una terapia farmacologica, fosse davvero accessibile. L’inaccessibilità non è fatta solo di barriere strutturali, ma anche culturali.
Non ci siamo chiesti se, forse, la responsabilità di questa tragedia fosse da attribuire anche a queste barriere imponenti, che investono l’accesso all'aborto in Italia.
Basta volgere lo sguardo ai dati sull'obiezione di coscienza: in Italia si è dichiarato obiettore il 63,4% dei ginecologi, il 40,5% degli anestesisti e il 32,8% del personale non medico.
Le percentuali sono molto variabili. Ogni regione ha tassi di obiezione di coscienza diversi, con picchi dell’84% fra i ginecologi in Abruzzo, del 77,8% in Molise e dell’85% in Sicilia. Nella provincia autonoma di Trento, invece, la percentuale scende al 17,1%, seguita dalla Valle d’Aosta (25%) e dall’Emilia-Romagna (45%). (Fonte qui)
Non abbiamo discusso del fatto che, in realtà di provincia in cui si conoscono tutti, anche entrare in un consultorio può rappresentare un ostacolo e rischiare di creare danni reputazionali che una giovane ragazza, probabilmente, non ha gli strumenti per fronteggiare. Petrolini non ha saputo o potuto chiedere aiuto.
Carola Finatti, condannata per l’omicidio della sua bambina di dieci mesi, invece l’aiuto lo aveva chiesto. Tutte le sue richieste di essere accolta in una struttura psichiatrica, però, sono state ignorate.
Anche di questo caso abbiamo letto tanto, ma non che Finatti aveva iniziato a stare male a causa di una depressione post partum. Non abbiamo letto di quanto sia facile, oggi, cadere in un abisso al buio, dopo aver dato alla luce un bambino. E non abbiamo letto che le modalità con cui si affronta il parto possono avere una diretta incidenza con questa patologia. Non abbiamo discusso di quando la violenza sanitaria in fase di parto e post parto oggi, in Italia, rappresenti un vero e proprio allarme.
La violenza ostetrica comprende una serie di atteggiamenti e pratiche che ledono l'integrità, la volontà e il diritto all'autodeterminazione delle persone in gravidanza, compromettendo l'esperienza del parto, del travaglio e del periodo post-parto. Questo fenomeno include mancanze nell'assistenza, offese verbali, coercizioni fisiche e psicologiche da parte del personale sanitario, e carenze di comunicazione o informazioni scorrette riguardanti il percorso pre-parto. Rientrano in questa definizione anche pratiche standardizzate come l'episiotomia (un intervento chirurgico che facilita il parto di cui bisogna sempre informare la paziente), il diniego del parto cesareo o dell'analgesia durante il travaglio, così come l'esecuzione di interventi medici senza previo consenso o senza adeguata discussione con la paziente. I dati del 2024 sulla violenza ostetrica in Italia sono sconvolgenti: circa il 41% delle madri italiane ha dichiarato di essere stata vittima di pratiche lesive per la propria dignità psicofisica in fase di parto. (Fonte qui)
Questa violenza, questa disumanizzazione, come dicevamo, incide profondamente sulla possibilità di sviluppare patologie come la depressione post partum o il baby blues, lasciando ferite che non si rimarginano. La depressione post partum non è uno sfortunato inevitabile evento, è un allarme sociale di cui ci si deve far carico, mentre ci riempiamo la bocca di denatalità.
La depressione post-partum (PPD) è un disturbo mentale che colpisce molte donne dopo il parto, con una prevalenza stimata tra il 10% e il 15% delle puerpere in Italia. I sintomi includono tristezza persistente, ansia, insonnia, difficoltà a prendersi cura del bambino e, nei casi gravi, pensieri suicidari. La PPD può durare da alcuni mesi fino a un anno ma in alcuni casi può presentarsi anche tardivamente, influendo sulla salute della madre, del bambino e sull'equilibrio familiare. Fattori di rischio includono precedenti episodi depressivi, mancanza di supporto sociale, complicazioni durante la gravidanza, e stress legato alla maternità. Il trattamento prevede una combinazione di supporto psicologico, farmacologico e interventi psicosociali. Screening tempestivi, come l'uso della Edinburgh Postnatal Depression Scale (EPDS), o una corretta e accessibile informazione sul tema, sono essenziali per individuare precocemente i casi a rischio e fronteggiare questo fenomeno.In Italia, nonostante l'importanza del tema, la standardizzazione di linee guida e programmi di prevenzione è ancora limitata rispetto ad altri paesi europei, il che può portare a ritardi diagnostici e disparità di accesso alle cure.(Fonte qui)
Definire "mostro" una madre che uccide è un atto spontaneo, ma di vigliaccheria collettiva. È il modo in cui non ci diciamo che quei bambini sono stati uccisi dalle loro madri, ma forse anche dalla cecità di un sistema che non si prende cura delle maternità, che non le sostiene, che non si accorge di quando una madre si trova sull’orlo del precipizio.
Dobbiamo smettere di raccontare storie di mostruosità individuali e iniziare a raccontare storie di mostruosità sistemiche. Dobbiamo attingere dalle specificità, entrare nelle matasse e provare a sbrogliarle. Dobbiamo partire dal riconoscere che la cura dei figli è una responsabilità collettiva, riconoscere che nel sistema gestazione, parto e post parto ci sono dei meccanismi sistematicamente inceppati, sistematicamente ignorati.
“Per crescere un figlio serve un villaggio”, dicevamo. Se questo villaggio esiste, queste madri e questi figli non sono stati considerati degni di farne parte.
Le madri assassine sono (anche) il sintomo estremo di una società che ha fallito nel prendersi cura delle sue stesse fondamenta. E finché continueremo a guardarle come se la cosa non ci riguardasse, a isolarle nella categoria del "mostruoso", continueremo a fallire. Continueremo a permettere che sempre più madri vengano inghiottite dalle loro case, con un neonato in braccio.
Tra pochi giorni arriverà l’aggiornamento della lista Condivisione è cura, molte (moltissime) di voi si sono già incontrate o organizzate per vedersi. Al di là dello scambio dei beni, prezioso ed emozionante, leggere nei dm che vi siete organizzate per andare al cinema insieme o per cucinare insieme mi ha profondamente commossa. Grazie di cuore.
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Spero di tornare presto con nuove riflessioni condivise, intrecciando ancora una volta le nostre voci in un percorso di cura collettiva.
A presto, Francesca.
Come sempre, Francesca, complimenti per la tua analisi.
Mi piacerebbe raccontare brevemente la mia esperienza che penso abbia un'attinenza.
Sono diventata mamma a 28 anni, dopo una gravidanza in cui ho sofferto come un cane perché sono malata di Morbo di Crohn da quando avevo 7 anni e ho lavorato fino a una settimana prima del parto perché il mio bambino, imbottito di steroidi insieme a me, è nato quasi un mese prima. Mi hanno dimessa di domenica pomeriggio, il martedì mio marito era al lavoro. I miei genitori lavoravano ancora, le mie amiche lavoravano. Meno di 48h dopo essere stata dimessa ero DA SOLA col mio primo figlio, con delle ragadi sanguinanti che mi facevano vedere le stelle ogni volta che si attaccava e il pediatra che mi consigliava di attaccarlo di più perché non cresceva adeguatamente. Il primo mese di vita di mio figlio è stato decisamente il più oscuro della mia vita. Lo tenevo attaccato tutto il giorno ma comunque non cresceva neanche il minimo sindacale, chiaramente piangeva tantissimo perché aveva fame ma non capivo che quello era il motivo. Ho anche interpellato due ostetriche per chiedere consiglio riguardo la faccenda dell'allattamento ma oltre a consigli a distanza non ho avuto altro.
Alla fine di questo mese terribile sono passata al latte artificiale (che NESSUNO mi aveva proposto, anzi) e la situazione è migliorata.
Dico sempre che non sono entrata in depressione, ritengo, perché sono una persona molto forte di carattere. Non lo dico come autocelebrazione ma oggettivamente; la malattia cronica mi ha allenata alla sofferenza fisica e alla razionalizzazione dei momenti difficili.
Quando, a posteriori, rifletto su cosa mi sarebbe potuto servire per rendere meno infernale questo primo mese mi rendo conto che sarebbe stata sicuramente una rete che, molto semplicemente, non esiste.
Una neo mamma deve sperare di avere un genitore in pensione e che abita vicino o un'amica a cui chiedere una mano o un marito che abbia l'opportunità di stare a casa il tempo necessario e non le due settimane previste di congedo (all'epoca una settimana). Altrimenti si arrangia.
Importantissimo da condividere! Grazie Francesca!